Lodovica San Guedoro: anticipazione del nuovo romanzo Amor che Torni

Amici lettori e lettrici
non sempre è facile che qualcuno possa riporre tanta fiducia in te da farti leggere in anteprima il proprio romanzo in divenire. Ebbene l'affermata scrittrice Lodovica San Guedoro, il suo ultimo libro è riuscito ad entrare nella selezione del Premio Strega, non solo mi ha inviato alcuni stralci del suo romanzo, ma mi ha permesso di pubblicarlo in anteprima per i lettori del blog La lettrice di carta.

Il romanzo ha già un titolo ed una copertina: Amor che torni.

La trama è il continuo del romanzo Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé. Ancora una volta la protagonista ed autrice ci racconta, con parole intime, poetiche  e lievi, la sua storia d'amore con Kasim, un ragazzo straniero più giovane di lei; nel libro eravamo rimasti alla rottura della loro storia, adesso riprende ...come andrà a finire? 
Per quello dobbiamo aspettare l'uscita del romanzo, ormai imminente, intanto potete leggere alcuni passi del romanzo ed esprimere i vostri commenti.

Buona lettura ed un grazie infinito a Lodovica San Guedoro

Amor che torni
(anticipazione)
Una sensazione inusitata di spaesamento mi compenetrò, come avessi perso la mia vera patria, come fossi uscita da un sogno ed esitassi e non volessi e non potessi riconoscere la realtà… Barcollavo per le vie terrestri con le gambe molli…

Ovunque andassi, nel mio quartiere, c’era un luogo che ci aveva visti insieme, un luogo che me lo ricordava sconsolatamente o con tenerezza struggente, e quei ricordi erano così vicini, era stato così poco tempo fa che quelle cose erano accadute, che erano vive: quei luoghi si affollavano intorno a me. Lui invece non lo vedevo più.
Presi ad andare ogni pomeriggio, infaticabilmente, nella D. Strasse con la speranza di rincontrarlo, e quell’abitudine, che mi accompagnò fino ad oggi, mi accorsi che mi teneva in vita. Quando lui partì per la Bosnia, tornai a S. Platz, a cercare, in mancanza di lui, l’atmosfera in cui aveva vissuto e viveva, il riflesso di lui sui muri e sugli alberi, le cose su cui si era posato il suo sguardo, vi tornai più volte. Tornai nella O. Strasse, e guardai il tavolo sotto la lanterna al quale eravamo stati seduti in una sera felice, e quell’altro tavolo sul marciapiede, dove eravamo stati seduti in una sera infelicissima… Accarezzai con lo sguardo l’inferriata nei pressi della quale mi aveva baciato con tanta delicatezza il dorso della mano e detto di essersi innamorato di me… Andai alla ricerca ansiosa della vetrata e del portone contro cui lui mi aveva schiacciata in quella tremenda sera che la sua follia e il suo mal di vita erano esplosi senza ritegno né pietà, li cercai a lungo, affannosamente, percorrendo e ripercorrendo la stradina, scandagliando ogni ingresso, sembravano svaniti. Malgrado quello che vi era avvenuto fosse triste e deforme, il fatto di non ritrovarli mi fece soffrire e fui vicina a mancare. Solo quando, dopo averli cercati di nuovo, testardamente, altre due volte, nei giorni successivi, potei identificarli e riconoscerli, mi cadde il peso dal cuore. Amavo anche loro, amavo anche i brutti ricordi connessi con il legno insensibile e il muro inerte, e avevo temuto che, per una maligna magia, fossero scomparsi, come era scomparso lui. Mi addentrai persino nel G. Park e contemplai con lancinante, nostalgico rimpianto la panchina sulla quale lui si era detto determinato a “prendermi”. Era stato brutto e sinistro anche quello, ma era accaduto nel tempo in cui il suo interesse per me era vivo e io mi sentivo insostituibile per lui, in cui, anche sotto le sembianze più disperate, c’era vita… Mentre ora tutto era spento e morto.
Rammento ora che proprio all’inizio, quando avevo appena conosciuto il primo doloroso tormento e mi ero fermata, con pensosa gravità, a riflettere sul dolore che, con ogni certezza, mi avrebbe aspettato ancora, mi ero detta: non m’importa di soffrire, non m’importa se patirò le pene dell’inferno, questo è pur sempre vita; quando sarò vecchia non soffrirò più e sarà spaventoso.
Tornai nella L. Strasse e, vedendo scomparsa, sotto le fondamenta della casa che cresceva, la voragine di terra in cui lui aveva proposto di scendere con me, rabbrividii: il tempo aveva cancellato impietosamente quello scenario conturbante e un’ottusa palazzina stava sorgendo al suo posto. Possibile che non avesse potuto lasciarlo intatto? Ebbi una vertigine e un’acuta fitta dolorosa al cuore. Tutto cambiava, si muoveva, si snaturava, perdeva peso ed emozione.
Una sera il mio pellegrinaggio mi condusse di nuovo nel giardinetto, posai lo sguardo prima sulla panchina inesplicabilmente muta e deserta, poi sulle tre oche immobili della fontana e m’inoltrai nel buio per il sentiero che serpeggiava attraverso il prato umido, fino al Kinderspielplatz. Guardai il casotto di legno con lo scivolo, come avesse qualcosa di lui per il fatto di trovarsi lì, come potesse darmi o dirmi qualcosa di lui, come se potesse uscirne lui stesso…
Tornai in quel giardinetto non so quante altre volte ancora, fino ad oggi, con gradi diversi di emozione e sentimenti diversi: con disincanta freddezza o con odio, rivolta e indignazione o anche solo per vedere se avrei provato ancora qualcosa. Quel giardinetto era l’ago che indicava con la massima esattezza in quale fase si trovassero il mio sentimento per Kasim e il mio modo di giudicare il suo comportamento, per non dire tutta quella storia, perché gli ondeggiamenti della mia anima erano continui. Il mio favore ora saliva, ora scendeva fino ad inabissarsi e sparire.


Quando prevalevano il disincanto, lo sfinimento e la disperazione, credevo di aver inseguito l’impossibile, e mi balzava agli occhi che c’era stato un parallelismo fatale tra la ricerca, perseguita per tutta la vita spasmodicamente, testardamente, vanamente, della fama letteraria, il mio morire per ottenerla, e l’anelito per Kasim. L’una e l’altro erano andati incontro al nulla, mi avevano portato la più amara e spietata delusione: due ambizioni fatte per fallire in questo mondo.

Eros, che attraverso gli occhi esprimi il desiderio, oh, Eros, che porti grazia e dolcezza nell’anima di coloro che conquisti, Eros, non rivelarti a me maligno e non oltrepassare la misura! Il dardo che scagli con le tue mani è più potente della fiamma del fuoco e dei raggi delle stelle, Eros, figlio di Zeus!”, Euripide.
E poi: “Mi dirai che la follia dei sensi colpisce le donne e non gli uomini. Ma io so di giovani fragili come donne, se Afrodite sconvolge il loro cuore.” E ancora, ancora: “L’anima degli dei che non si piega, e quella degli uomini, tu la rapisci, Afrodite, la rapisce Eros, dalle ali variopinte, Eros che trascorre in rapido volo sulla terra e sul mare risonante. Fulgido come l’oro, Eros incanta i cuori e nella sua follia travolge gli animali sui monti e negli abissi del mare, tutte le creature che la terra nutre sotto la calda luce del sole. E l’uomo. Su tutti, Afrodite, con potere sovrano, regni tu sola.”
E infine anche queste parole: “L’amore che Fedra ebbe per te non cadrà nel silenzio e nell’oblìo.”
Questo libro, questo libro lo scrivo perché il mio amore per te, Kasim, non cada nel silenzio e nell’oblìo…
Lucrezio: “Questa è Venere per noi; di qui viene il nome d’amore, di qui stillò prima nel cuore la goccia della dolcezza amorosa, e le successe gelido affanno. Se è lontano chi ami, è presente però la sua immagine, e il suo nome insiste dolce all’orecchio.”
Ogni sera mi copriva come un velo grigio l’ala della malinconia, e peggiore nelle ore che lui era solito trascorrere da me. Spesso questo succedeva mentre vedevamo un film. Venivo a sedere sulla sponda del letto e guardavo Hans con gli occhi sgranati, lamentandomi di non averlo più. Il mio cuore singhiozzava di tristezza e nostalgia.
Leggevo e rileggevo le sue letterine, con la meticolosità di un grafologo, attenta ad ogni parola, ad ogni virgola, ad ogni punto, ora sotto la lente del sospetto, vedendovi poca passione e troppo interesse sessuale, e soffrendo; ora scoprendo sotto il linguaggio maldestro l’impeto incoercibile ed inconfondibile di un essere trascinato da Amore, e chiedendomi come avessi potuto essere così ingrata da non notarlo prima. Allora febbricitavo di felicità, il cuore mi si gonfiava di gioia, mi si spezzava per il tumulto vitale. Rivivevo in un tempo brevissimo, dall’inizio alla fine, tutta la storia galoppante sempre più in un vortice che mi toglieva il respiro fino, fino… a frantumarsi: alle lettere di dicembre mi si posava invariabilmente una mano gelida sul cuore e brividi sinistri mi percorrevano tutta. Sapevo ormai quale insidia celavano, cosa avessero tentato di celare e di ritardare a me e a lui stesso: la condanna alla fine…
Quei messaggi scarni ed ambigui di dicembre mi facevano ogni volta rimorire come ero morta allora, quando mi annunciò che avremmo dovuto lasciarci. All’improvviso la storia mi appariva essere stata crudelmente breve, che si fosse bruciata come una meteora che corre nello spazio, incendiata, e non potevo accettarlo, mi ribellavo, mi disperavo, mi contorcevo nel dolore e infine venivo afferrata dalle spire di un orribile, tetro orgasmo, che mi soffocava e poteva durare anche un’intera ora.
La luna piena di marzo non ci aveva visti abbracciati al davanzale della mia stanza e così le fioriture delle acacie che a maggio inondarono la casa del loro dolce profumo e fecero sparire sotto lunghi tappeti di petali di delicatissimo giallo i marciapiedi della mia strada…
Avevo immaginato che quella sera di marzo avremmo contemplato assorti la luna e avevo sognato che a maggio i petali sarebbero scesi in pioggia su di noi…
Mi strussi di triste malinconia, perché nessuna delle due meravigliose cose era potuta avvenire…
Quando fiorirono le acacie, lui non veniva più da me… Quando quella fragranza mi stordiva, ero perdutamente sola, lui era lontano mille miglia, era in Bosnia…
In assenza di lui, la sua immagine mi perseguitava, si dilatava e irradiava crescente amore agli occhi della mia anima stregata.
Quando quella iridata chimera aveva preso possesso fin dell’ultima fibra del cuore, con la sua soave potenza, quando non sopportavo più il dolce peso di commozione sul mio spirito e sui miei sensi, ed ero tutta sciolta e tremante di febbre per la soprannaturale felicità, quando quella incantevole schiavitù aveva raggiunto l’acme ed ero completamente in sua balìa e il respiro mi si fermava per l’eccessiva bellezza di quel che provavo, in quello stesso preciso istante, mi rendevo tutt’a un tratto conto, fatalmente, di averlo perduto, di aver perduto nella realtà ogni possibilità di quella trepidante gioia celeste, e questo mi pareva inaudito, mi pareva impossibile, mi pareva insensato e mostruoso.
Senza potermi trattenere a nulla, precipitavo allora, di punto in bianco, in un amaro, spaventato dolore alla vista del gelido, terribile vuoto che mi si spalancava davanti e rompevo miseramente in singhiozzi, gemiti e invocazioni strazianti per la smisurata desolazione che mi sopraffaceva.
Come fosse ogni volta la prima volta, vedevo la mia situazione e i miei giorni stendersi davanti a me come uno scenario deserto, una terra devastata da un incendio, una terra bruciata. Sconvolta e attonita, mi chiedevo perché fosse successo, perché fosse accaduta una calamità così spietata e incomprensibile; da dove fosse venuto il fulmine che aveva causato tanta distruzione. Allora si sganciava dalla mie viscere, come una palla di fuoco, che, salendo in un lampo dentro di me, esplodeva in un’indignazione, in una ribellione veemente, in un odio selvaggio, e, respirando fuoco, mi dicevo che un simile delitto, una simile crudeltà, non potesse rimanere impunita; che colui che aveva recato una simile offesa alla vita, al pari di tutti quelli che la offendevano in milioni di modi diversi, era degno di morire, di essere sacrificato: chi accettava la morte in tempo di vita, non era buono a vivere, doveva morire.
Mi balenavano davanti puntualmente le ossessive immagini del film portoghese: il dolce declivio agreste con i piccoli, robusti ulivi, che il ragazzo discendeva ogni volta di corsa per andare da lei, la palazzina moderna dalla quale l’amata usciva per muovergli incontro, le coltellate con cui, chiusamente, senza pronunciare una parola, lui l’abbatteva.
Una notte mi svegliai sudata, col cuore che mi batteva violentemente d’orrore: quello che avevo sognato mi appariva vero, mi appariva di un’evidenza agghiacciante e mi rimase incollato al cervello per un lunghissimo momento…
Ormai lo avevo fatto, lo avevo proprio fatto, non c’erano dubbi, non si poteva tornare indietro.
Ero atterrita e stupefatta per quello che avevo fatto.
Lui era venuto a trovarmi, era di nuovo allegro e mi voleva baciare… Ci trovavamo nell’ingresso. Io lo abbracciavo e, mentre lo baciavo, gli affondavo improvvisamente un coltello nel ventre, due volte glielo avevo affondato. Lui aveva riso come si fosse trattato di un gioco, e mi aveva detto: andiamo di là. Ma, mentre tentava di andare, si era accasciato in un lago di sangue scuro e denso, tutto il suo sangue, che scorreva sul pavimento del mio ingresso, fino in cucina. Sul tavolo si vedeva la sua tazza e c’erano le sue sigarette… Sentivo l’odore del sangue, un odore dolciastro e penetrante. Così odora, dunque, mi ero detta, ad alta voce. Il lenzuolo azzurro copriva tutta la portafinestra. L’avevo messo io, per non far vedere dalle case di fronte quello che sarebbe successo? Avevo sollevato il suo corpo fra le braccia azzurre. Era ormai alle porte del buio. Non ero stata io ad ucciderlo, ma un mostro vomitato dal mare che aveva fatto impazzire di paura i suoi cavalli. Lui era ancora vivo tra le mie braccia, mescolai il mio fiato al suo in un lungo bacio, chiamandolo piano: Kasim… E poi gli coprii il volto con un velo…

Il 18 maggio iniziai a scrivere Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé... Il giorno prima lui era partito per la Bosnia.




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